L’esodo, con la propria terra sempre nel cuore
Maria Crasti, costretta a scappare a Trieste, ha vissuto sulla sua pelle la drammatica esperienza delle foibe

In occasione del Giorno del Ricordo, le due classi terze della secondaria di Fornovo S.G. hanno potuto assistere alla testimonianza della signora Maria Crasti su una pagina della storia poco nota.
È stato molto interessante ascoltare i dettagli dell’esodo giuliano-dalmata e delle foibe da una persona che da bambina ha vissuto questa drammatica esperienza.
La signora Crasti ha iniziato il suo racconto parlando dei primi anni della sua vita ad Orsera d’Istria, all’epoca territorio italiano ma oggi croato. Purtroppo, a causa dell’emigrazione forzata della maggior parte dei cittadini d’Istria italiani per nazionalità e lingua, anche la sig.ra Crasti fu costretta a scappare a Trieste.
Questa storia però ha radici antiche. Dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente fino alla fine dell’Ottocento, in Venezia Giulia, nel Quarnaro e in Dalmazia le popolazioni convissero pacificamente. Tra il 1848 e il 1918, però, l’Impero Austroungarico favorì l’etnia slava per contrastare l’irredentismo della popolazione italiana. Il trattato di Rapallo del 1920 assegnò all’Italia quasi l’intero litorale austriaco (ora Venezia Giulia) e le città di Zara e Fiume: la parte annessa al Regno d’Italia fu sottoposta a un processo di italianizzazione forzata, che divenne ancora più duro con l’avvento del fascismo. Quando con l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’esercito italiano si trovò allo sbando per la mancanza di ordini, l’Armata Popolare Jugoslava del maresciallo Tito fu la protagonista delle prime rappresaglie e dei primi infoibamenti nei confronti degli italiani. Dal 1945 prese il via a una nuova fase degli infoibamenti.
Proprio nella primavera del ‘45, quando aveva sei anni, in una notte senza luna, la mamma di Maria Crasti la svegliò dicendole che dovevano andare dalla nonna; in realtà però stavano andando a prendere una barca per scappare a Trieste. I remi della barca erano avvolti con de-gli stracci, in modo da non fare nessun rumore, e sua madre aveva scelto proprio quella notte perché il cielo sarebbe stato poco illuminato e nessuno avrebbe potuto vederle.
Arrivate a Trieste furono accolte nei campi profughi (scuole o caserme dismesse), ma i pregiudizi degli italiani verso di loro erano tanti: i profughi, infatti, non erano visti di buon occhio, né tantomeno erano considerati italiani.
Dal racconto della signora Crasti è emerso anche che molte delle persone che non volevano abbandonare il loro paese natale venivano gettate nelle foibe dai partigiani jugoslavi: suo padre stesso, ad esempio, fu rinchiuso in prigione per un po’ di tempo con la minaccia quotidiana che sarebbe stato infoibato.
Fortunatamente però il padre alla fine riuscì a scappare e a ricongiungersi alla sua famiglia.
Lo stesso cognome della signora Maria porta i segni di questa storia: dal processo di italianizzazione Crastich, alla slavizzazione in Krastiç, alla scelta finale che lo ha reso Crasti.