ll progetto de Il Giorno per i lettori di domani

Scuola Secondaria di I grado Saba di Milano (MI) - 2E

Sostenibilità e fast fashion: unione possibile

La consapevolezza è la chiave per cominciare a immaginare un mondo migliore che ruoti attorno al rispetto dell’ambiente

Lo scorso 19 marzo gli alunni della Scuola Secondaria di I grado Saba ha partecipato al laboratorio «Fast Nature» presso la Biblioteca Comunale di Cassina Anna. È stato il primo passo verso la consapevolezza su temi importanti, che toccano tutti da vicino: il riscaldamento globale, il cambiamento del clima causato dall’uomo, le implicazioni dei comportamenti umani, il dovere di cambiare rotta, riconoscendo che i nostri modi di vivere hanno un impatto spesso devastante sul nostro pianeta.

Ad accoglierci e a tenere incollate tante paia di occhi sulle immagini e i grafici proiettati c’era Mariagrazia Cucurachi, bibliotecaria attentissima a questi temi e che i ragazzi conoscono per il suo impegno nella promozione della lettura.

Non è stato solo ascoltare: è stato prendere parte a un percorso che – a partire dalle risorse e dal fatto che non durano per sempre – ha portato al ragionamento su un tema che ai ragazzi è piaciuto molto: la cosiddetta “fast fashion”. Ne avevano già sentito parlare in classe, senza tuttavia cogliere quanto importanti siano le conseguenze dei nostri comportamenti. Ed è stato facile per loro collegare le prime nozioni studiate sulla delocalizzazione produttiva e sulle classifiche basate sul PIL e sull’ISU dei Paesi del mondo. Il pensiero è andato subito ai Paesi più poveri, quelli che nelle classifiche si trovano in fondo.

Quelli dove le grandi aziende, non solo della fast fashion, spostano sempre più spesso i loro settori produttivi, perché la ma-no d’opera costa meno.

Sostenibilità è stata l’altra parola chiave, accanto a consapevolezza. Quanto il nostro stile di vita è sostenibile? Siamo davvero sicuri che quello che facciamo spesso senza riflettere, in automatico, sia davvero ciò che serve al nostro pianeta? Comprare di continuo, per esempio, abbagliati dalle riviste di moda o dalle vetrine e dai siti delle grandi catene di abbigliamento.

Durante il laboratorio e poi in classe i ragazzi si sono posti domande importanti: che cosa compro per vestirmi? Ho davvero bisogno di acquistare tanti vestiti? Da dove viene ciò che indosso? Che storia ha? Che destino hanno i miei abiti una volta che non li uso più? A osservare le etichette nulla di ciò che indossiamo o molto poco ha origine vicino a noi: Cina, Vietnam, Cambogia, Pakistan… Ritorna la parola chiave: consapevolezza. Forse non modificheremo le nostre abitudini – dicono i ragazzi alla fine di una piccola indagine in classe, che ha coinvolto anche tre professoresse – ma almeno ora ci viene naturale leggere le etichette. E controllare da dove viene quel capo alla moda, non troppo costoso, che abbiamo acquistato – spesso online – senza pensarci troppo. Forse pian piano cominceremo a riflettere e a comprare meno e scegliere meglio, senza lasciarci prendere dall’ossessione di cambiare vestiti ad ogni momento. La Terra non se lo può premettere.

 

Dopo il laboratorio, in classe la 2E legge l’etichetta con il made in di ciò che indossa. Sono presi in considerazione scarpe, magliette, felpe, jeans e giubbotti, praticamente la nostra divisa di tutti i giorni. Partecipano anche le prof. Premessa chiara a tutti: nessuno giudica, né deve sentirsi giudicato. Siamo tutti sulla stessa barca: compriamo tutti nelle grandi catene della fast fashion, che conosciamo perché presenti ovunque, comode e a prezzi accessibili. Ci bombardano di novità di continuo.

Si va in bagno a leggere le etichette o a decifrare le scritte sotto la suola delle scarpe. Si apre un mondo, nel verso senso della parola! Bangladesh, Cina, Cambogia, Vietnam, Thailandia, Indonesia, Turchia… I paesi più vicini sono Spagna e Portogallo, poca roba. I ragazzi non sanno ancora collocarli sulla carta: dove diavolo è il Pakistan? Ale osserva qualcosa di interessante: «Sa, prof, l’altro giorno siamo andati alla Scala con la scuola e ci siamo vestiti diversi». «Diversi come?» «Beh, meglio… sa, per andare alla Scala…. “Prof, ero tutto made in Italy!» Vestiti sicuramente più costosi, che Ale probabilmente non butterà via a fine stagione avendoli indossati poche volte.

Prodotti in Italia – si spera – da operai pagati il giusto, con le garanzie di sicurezza e rispetto dei diritti e dell’ambiente. 

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