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IC Enrico Fermi di Romano di Lombardia (BG) - 2E

Romano, il liceo ginnasio spegne 150 candeline

Nato per volontà del tenore Rubini, è segno tangibile delle opere di beneficenza con un orfanotrofio e la casa di riposo per musicisti

150 anni fa, la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia pubblicava il testo del Regio Decreto n.

1026 del 01/04/1875: «Veduto il testamento olografo della fu Adelaide Comelli, vedova del cavaliere Giovanni Battista Rubini, in data 5 aprile 1872, pubblicato in atti del notaio Vadori di Romano di Lombardia addì 31 gennaio 1874, con cui essa ordinava la fondazione in detto comune di una scuola ginnasiale di otto classi sotto il titolo di Ginnasio del cavaliere Giovanni Battista Rubini; Veduta la istanza degli esecutori testamentari, diretta ad ottenere che il suddetto ginnasio venga costituito in corpo morale; il ginnasio del cavaliere Giovanni Battista Rubini, istituito sotto questa denominazione in Romano di Lombardia dalla fu Adelaide Comelli vedova Rubini con suo testamento olografo del 5 aprile 1872, è eretto in corpo morale».

Era l’atto di nascita del Ginnasio/Liceo a Romano.

Fu lei a mantenere così viva la memoria del marito offrendo ai giovani di Romano la possibilità di studiare, oltre alla creazione di un orfanatrofio maschile e di una casa di riposo per artisti in paese. Infatti, nel suo statuto (R. D. n. 2207 del 22/09/1880), si prevede che «Lo scopo dell’isti-tuto è di procurare gratuitamente a tutti quei ragazzi, che vorranno essere ammessi l’istruzione classica delle cinque classi ginnasiali e delle tre liceali e che per disposizione testamentaria hanno la preferenza nell’ammissione i figli di famiglia appartenente al Comune di Romano».

Accanto al «Ginnasio Rubini», sorse il «Convitto Ginnasiale San Defendente», retto dal sacerdote don Rinaldo Rossi, per ospitare tutti quei ragazzi che frequentavano il Ginnasio, come riporta l’Eco di Bergamo del 26/08/1880.

Ma non fu l’unico benefattore: molto devono i Romanesi a Giovanni Battista Mottini. Nelle cronache ottocentesche si trovano numerosi riferimenti ai suoi lasciti a favore dei poveri, come la distribuzione di grano o di minestre calde in inverno.

E oggi due Fondazioni portano avanti il messaggio di solidarietà di questi grandi uomini, e che siano importanti per Romano, lo si capisce anche dalle personalità che furono chiamate a guidarle, come il senatore Giovanni Ruggeri della Torre, originario di Vertova e morto il 21 aprile 1896 a Romano “con tutti i conforti religiosi”, come scrisse il quotidiano L’Eco di Bergamo.

Ruggeri a Romano aveva svolto la sua azione politica «reggendo sagacemente quel comune, amministrandone le opere di pubblica beneficenza», come narra la sua Commemorazione fatta in Senato.

Un altro grande benefattore fu Giovanni Evangelista Schivardi, titolare di un’industria che lavorava la pelle, che lasciò lascito di un milione e mezzo di lire per opere di beneficenza, di cui un milione per l’istituzione di un reparto per il ricovero di vecchi poveri.

Le radici delle solidarietà a Romano sono antiche, ma i suoi frutti sono sempre attuali.

 

Per approfondire il tema della beneficenza, abbiamo posto alcune domande a Marco Maltempi, storico e profondo conoscitore della vita di Giovanni Battista Rubini.

Perché Rubini dona parte del suo patrimonio in beneficenza? «Rubini mostra un’attenzione che ci offre la possibilità di capire quanto fosse stata “ponderata” la sua decisione: per intenderci non un’unica, indistinta donazione, ma un’idea chiaramente sostenuta da un pensiero chiaro, cioè di provvedere alla creazione di un orfanotrofio, di un liceo-ginnasio che preparasse le future classi dirigenti e di una casa di riposo per musicisti, che tra l’altro “anticipò” la fondazione della celebre “Casa Verdi” di Milano. Credo che il fatto di aver viaggiato molto e di aver fatto diverse esperienze gli avesse in qualche modo aperto la mente a una visione decisamente moderna, per i tempi, del concetto di beneficenza».

Nell’Ottocento a Romano c’erano ben due lasciti a favore dei più bisognosi gestiti da Comune e Parrocchia? «In effetti, dobbiamo entrare in un’ottica ottocentesca, dove il concetto di welfare era lontano dalla visione attuale. Tuttavia Comune e Parrocchia potevano avvalersi di una serie di regolamenti e strumenti burocratici che consentivano loro di gestire questi ingenti lasciti a favore della comunità, secondo le indicazioni dei benefattori». 

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