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IC Rubini di Romano di Lombardia (BG) - Redazione Classi Terze

La storia dell’Atalanta attraverso una porta

Pizzaballa e Cometti, due portieri indimenticabili per la squadra orobica e che hanno lasciato un segno forte. Oltre lo scorrere del tempo

Un campo da calcio, una porta: dove iniziano i sogni, dove si intrecciano. Un pallone e due giocatori, protagonisti di un’epoca appartenente ad un passato ormai lontano, in bianco e nero davanti alla tv, fatta di polvere e fango sul campo, di sacrifici, inseguiti fino al cuore di questa storia: Bergamo.

Sessantuno anni fa, il luogo in cui oggi giocano e fanno divertire i ragazzi di mister Gian Piero Gasperini echeggiava di gioia, perché l’Atalanta vinceva l’unico trofeo della sua storia, la Coppa Italia 1962-1963.

I portieri – gli estremi difensori di quella Dea – erano Pier Luigi Pizzaballa e Zaccaria Cometti: due esempi di tenacia, la prova che il sacrificio e il duro lavoro, insieme al talento, possono diventare modelli di valore non solo nello sport, ma anche nella quotidianità.

Cometti ci ha lasciato ormai quattro anni fa, strappato via da quel maledetto Covid-19. Era originario di Romano di Lombardia, che lo ricorda sempre con commozione ed orgoglio. A lui, nel 2021, è stato intitolato lo Stadio e gli è stata dedicata la medaglia delle eccellenze della città, omaggi che testimoniano la riconoscenza per la sua presenza importante dentro e fuori i campi da calcio. Una riconoscenza che attraversa il tempo e lo spazio e dalla Bassa Bergamasca arriva fino a Ponteranica.

Qui risiede oggi Pier Luigi Pizzaballa, prima giocatore e poi allenatore, portiere dalle parate indimenticabili, celebre anche per la sua figurina dell’album, praticamente introvabile e diventata leggendaria.

Una carriera ricca di soddisfazioni, quella di Pizzaballa, e di ricordi, che prendono vita nei suoi racconti, vividi e guizzanti come la corsa sull’erba verde di un campo da calcio.

Quando viene pronunciato il nome di Cometti, gli occhi di Pizzaballa brillano: erano compagni di porta, amici di squadra, uniti da una passione e da un obiettivo comune. Anche se a volte erano in competizione per il ruolo di titolare, erano l’uno la spalla dell’altro e hanno fatto di quella leggera e sana rivalità non un limite, ma un punto di partenza reciproco. Pizzaballa, infatti, era arrivato nella squadra dopo Cometti e, in quel mondo dello sport del passato circondato da un’aura di purezza, ha saputo trarre fin da subito un insegnamento: l’attesa.

Perché l’amore per il calcio – come per tutto ciò che accende la vita – non è solamente prestanza fisica, esibizione, vittoria: è anche stare fermi, resistere, dare il massimo nei momenti difficili. È saper aspettare. Così la scintilla genera la motivazione e quest’ultima diventa impegno e dedizione, insieme ai valori che riempiono la vita. In aggiunta a tutto questo restano i rituali segreti pre-partita, gli scherzi per alleggerire allenamenti faticosi, le vittorie e i riconoscimenti e, ancora più forte, si staglia l’immagine di due ragazzi che, di fronte ad una porta, si sorridono.

 

Signor Pizzaballa, qual è stata la scintilla nel voler diventare un calciatore? «Da piccolo andavo a giocare con i miei fratelli più grandi che mandavano me in porta. Avevo qualità già naturali e, una volta arrivato in prima squadra, mister Carlo Ceresoli mi ha completato, perché per migliorare bisogna avere un insegnamento».

Come è stato il suo debutto nell’Atalanta? «Partita contro il Milan, Rivera calcia, c’è una deviazione… subito autorete! Beh, non iniziò molto bene!. Ho sempre appreso molto dai miei sbagli e sono migliorato ed ero soprannominato l’Angelo biondo, per i miei tuffi».

Come è cambiato negli anni il ruolo del portiere? «È cambiato molto. C’è stato un miglioramento tecnico, ma i portieri hanno iniziato ad usare più i piedi che le mani».

Cosa ha significato per lei non indossare più i guanti da portiere? «In realtà, ai miei tempi non si usavano i guanti ma solo le mani. Ho smesso a 41 anni, con molto dispiacere, ma sono stato contento di diventare un allenatore».

Che consiglio darebbe ai giovani di oggi, sul calcio e sulla vita? «Lo sport mi ha insegnato che, fin da giovani, bisogna impegnarsi seriamente e con motivazione. Bisogna combattere, sempre». 

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